Passeggiando insieme alla statua del Santo (Le Tavole di San Giuseppe a Minervino)

di Luisa Ruggio

Facciamo un piccolo viaggio nel Salento profondo, per tre giorni di seguito torniamo a Minervino. Totò, il Presidente della Pro Loco, ci ha promesso di farci da guida di casa in casa, alla scoperta delle Tavole di San Giuseppe. Nei paesi che circondano Otranto questa tradizione è viva e dice il senso della comunità. Nei giorni che precedono la festa di San Giuseppe, il Santo papà, la pioggia svuota le strade e alcuni sbirciano dalle finestre delle case basse dai davanzali già orlati di fresie, sguardi che interrogano le nuvole e confidano nel colpo di scena, il sole tornerà in tempo per la processione del 19 marzo. E infatti accade. La sera del 18 marzo tira un vento freddo, la visita alle Tavole allestite nei piccoli saloni di provincia è uno sciamare di preghiere sommesse. Tre generazioni si raccolgono intorno ai riti legati al Santo, i loro preparativi sono accompagnati da parole ardenti, tutte le parole tramandate insieme alle ricette che custodiscono il senso della ritualità.

Incontriamo queste donne nelle cucine, nei depositi, negli scantinati, ci fermiamo a parlare con loro mentre rimescolano "pampasciuni" dentro grandi pentoloni, ascoltiamo le loro filastrocche accanto alle distese di "massa", la pasta fatta in casa tipica di questo bordo di Salento, una pasta carica di storie.
"Quando eravamo piccoli," racconta una vedova, "la fame era tanta e le Tavole di San Giuseppe erano l'occasione per chiedere una porzione in più. Qualche volta si tornava nelle case visitate da poco e si porgeva il piatto. Ognuno si portava il suo piatto da casa". Del resto, la tradizione delle Tavole è legata agli ultimi, i senza nessuno, gli affamati. In origine erano loro a essere gli ospiti d'onore delle case che si lasciavano aprire dalla tenerezza e dalla devozione. Per amore del Santo, le famiglie si industriavano a programmare un fare concreto, apparecchiavano la tavola prendendo dai cassetti le tovaglie migliori e accoglievano i Santi, i disgraziati. Dare, ricevere. Ancora oggi bisogna ricevere il pane senza ringraziare, così vuole la tradizione. A quelli che ci tolgono l'attrezzatura di dosso per riempirci le mani di pane e pittule, diciamo "Grazie,", e quando tentiamo di rifiutare veniamo rimproverati: "Non si dice No e non si dice Grazie, si dice: Secondo le tue intenzioni". Secondo le tue intenzioni, diciamo frastornati quando ci porgono una busta di plastica dentro cui riporre le pagnotte profumate, della nostra meraviglia le vecchie ridono allegre, ridono con gli occhi.

Qualcuno prepara le Tavole per devozione, qualcuno ha chiesto la grazia, "Ognuno secondo la propria intenzione", così dice un'altra donna che attende i grossi pani tondi in arrivo dal forno di un paese vicino a Minervino. Questi pani sono il simbolo della famiglia che si ritrova e si concede un tempo sganciato dal fluire del quotidiano, coronati da un'arancia e da un finocchio diventano l'apice di una gastronomia scenografica fatta di tante pietanze tipiche della cultura povera: la pasta fatta in casa con i ceci, le "pittule", il pesce fritto, i lampascioni, la verdura, l'olio, il vino.
Le "pittulare" preparano per giorni le tipiche frittelle salentine, sono volontarie, il tempo dedicato alla cucina è una forma di preghiera. "Quando noi non ci saremo più," ci spiegano accanto a una Tavola ormai pronta, "i nostri figli continueranno a custodire questa tradizione, così come noi abbiamo fatto seguendo l'insegnamento dei nostro genitori e delle nostre nonne".

Durante la processione seguita dalla banda che suona, mentre i devoti portano "a passeggio" la statua di San Giuseppe, dandosi il cambio di tanto in tanto, osserviamo questo piccolo paese da dentro, attraversiamo le sue arterie fatte di mura screpolate e intonaco che una volta è stato rosso, sentiamo la variazione della luce, percepiamo la traccia di un Salento che altrove si è rifatto il trucco. Nei vicoli si rincorre l'odore dei camini, delle braci, l'odore della pignata di ceci, dell'aceto di vino usato per condire quei "pampascioni" che trasformano qualunque frase in una risata corale. Poche donne si affacciano alla finestra al passaggio del santo, quasi tutte seguono la processione, quasi tutto il paese si dirige nella chiesa dove il Santo fa ritorno mentre sui tetti e tra i comignoli il tramonto tinge l'aria della sera.

Più tardi, in piazza, il rito diventa spettacolo, dopo l'apertura delle tavole che le famiglie hanno aperto ai commensali nel giorno di San Giuseppe, è il momento dello scampanellio e dei tre colpi di bastone che un personaggio pubblico, di anno in anno diverso, batte per dare il via alla cena davanti a tanti sguardi curiosi, pronti a festeggiare un'altra volta.