Domani, durante il film, pensa a me: aprile a Lecce, il Festival del Cinema Europeo

di Luisa Ruggio

Entro in una sala buia come si entra in una vasca piena fino all’orlo, calda e amniotica. Entro in una sala buia perché in certi momenti ho solo due possibilità: andare alla deriva o andare al cinema.
Ognuno si sceglie le sue vie di fuga, la mia è l’ultima fila. Come se non bastasse, da molti anni c’è un parallelo tra la redazione di un giornale e un multisala cittadino, quel parallelo è il Festival del Cinema Europeo che nel mese di aprile torna ad aprire le sale - protette da pesanti tendaggi - sin dalle prime ore del mattino. I multisala che hanno offerto ospitalità a questo evento fondamentale nella vita di una Lecce altrimenti priva di stimoli significativi sono il Massimo e il Santa Lucia (ora chiuso), solo il Massimo ha resistito, purtroppo, rstando l'ultimo spaccio di immaginario in città, una sostanza necessaria per la nostra vita.

Appartengo a quella fetta di spettatori che non mangiano al cinema, anni fa volevo fondare un comitato del No alla distribuzione di pacchi di patatine e popcorn nelle sale, sono stata torturata abbastanza durante sequenze che meritavano un assoluto silenzio. Perciò i matinée al cinema, col pretesto di fare il mio lavoro, recensire un film, intervistare il regista o l’attrice che passano da queste parti come una volta passavano i mangiafuoco, i cantastorie o i funamboli, sono un senso improvvisamente ritrovato, un salvataggio. Ogni anno aspetto aprile e anche stavolta il Festival è tornato, col suo programma di proiezioni che tirano fino a notte fonda, per il tempo di una settimana che cancella tutto. Un meticoloso, sapiente macello. Un’atmosfera rarefatta rende le mie giornate vaghe, perché i film sono slarghi davanti casa ma anche lontanissimi da casa, dove vengono elargiti segreti e anticipazioni, ma soprattutto: invece di sorreggere la memoria, qualche volta, la sostituiscono. Così resta documentata nella mia mente una sola età, piena di appunti scritti a margine, con una penna di fortuna prestata da un collega un po’ assonnato durante il turno in redazione del mattino, sui cahiers du cinema, sui cataloghi del Festival, datati come calendari. Allora mi ricordo una sequenza de “Il sole ingannatore” di Nikita Mikhalkov, mi ricordo il suo sguardo trasparente durante l’intervista nel foier di un albergo, ma non so assolutamente cos’altro ho fatto quel giorno, a parte assimilare per osmosi alcune immagini e parole.

Se cerco una traccia delle giornate trascorse al cinema attraverso gli appunti presi sui cataloghi annuali del Festival, trovo citazioni lampanti, ad esempio un inciso firmato De André che dice: “Ho sognato così intensamente che mi è uscito sangue dal naso”. E così gli appunti dei mesi di aprile passati, sono luoghi di spiazzamenti, cose scritte al buio mentre i film scorrevano, cose che non potevo permettermi di perdere mentre affioravano spontaneamente e nella borsa il display del telefonino lampeggiava segnalando un mucchio di chiamate perse, mi cercavano a vuoto dalla redazione e da casa. Durante la settimana del Festival, torno a essere un disertore, mi ritiro dal mondo e mi assegno autonomamente altre porzioni, di fatto esco dal cinema solo in tarda serata, quando le sale si svuotano e gli addetti ai lavori si concedono una sigaretta dopo un giro di perlustrazione.

Anche quest'anno, la voce fuori campo di certi protagonisti è tornata a mettere sotto incantesimo la città, stavolta è stato Aki Kaurismaki a farmi trascorrere delle ore in una passione della mente.
Ho trascorso molto tempo a chiedermi che razza di aprile sarebbe senza il Festival del Cinema Europeo che ci consola, almeno un po’, nel nostro insilio salentino pieno di odio e di amore, dico una banalità, ma è così e non se ne esce, che vi piaccia o no. Negli anni, quando ho percepito chiaramente il rischio che il festival saltasse, mi è capitato di tremare, qualcuno allora mi ha fatto notare che forse tutto questo interesse per una manciata di film proiettati in orari assurdi è eccessivo da parte mia, soprattutto mentre in città regna un’altra primavera e un certo intrattenimento enogastronomico, per così dire.

Insomma, la città ha ben altro a cui pensare, questo è il ritornello, su per giù. Per me è impossibile non sorridere amaramente di una simile ingenuità, rimbalza altrove, nello spazio lasciato vuoto da posti come il Cinema Odeon o come l’Ariston, sostituito da un’orribile sala bingo, la prova di un’incultura profonda che ha attecchito senza intralci, agevolata, anzi, dalla mancanza di spettatori della Traumfabrik, la fabbrica dei sogni, come la chiamarono i tedeschi. Eppure questa cura è soprattutto della gente, uno si aspetta che siano altre cose a salvare una città: il potere di pochi, la rivolta dei disperati, una certa sottomissione, le tradizioni, le elezioni e non so che altro. E invece no. Sono soprattutto certi luoghi chiamati cinema, certi festival come quello in corso anche quest’anno nelle sale del Massimo.
E poi quando la sala si svuota, viene ripulita e non c’è nemmeno un’orma, un segno qualsiasi, niente, è come se non fosse mai passato nessuno, è come se gli spettatori dello spettacolo precedente non fossero mai esistiti. Non è vita falsa, non è vita vera, è tempo che passa, immagini e parole, un altrove perfetto senza uscire dalla città.