La verità, vi prego, su una donna qualsiasi

di Luisa Ruggio

Una giornata qualunque in un quartiere senza pretese, chiamatelo come vi pare. In una di quelle case così simili ad alveari c’è una donna che non fa rumore, impegnata com’è, si capisce, a controllare la sua piccola madre ridiventata bambina e che ha bisogno di lei per ogni cosa, non si può distrarre un attimo. Donatella non ama le mimose, gli alberi di mimosa sì, ma in casa quei pois gialli puzzano. Meglio un’ora in più, un’ora tutta per sé, come una stanza senza finestre, né porte, senza lo sciabordio noioso dei soliti programmi televisivi. Potrebbe permettersi di pagare una badante per prendere il suo posto, la signora Donatella, potrebbe anche permettersi il ricovero in un centro specializzato. Ma il suo amore è impegno e l’impegno è amore. Questa storia di ordinario amore è la sostanza dei fatti, Donatella non è il tipo che si perde d’animo solo perché sua madre, da anni, ha smesso di riconoscerla. E poi, intorno a quella voragine in cui lei e sua madre sono capitate, per via della malattia, ci sono anche degli istanti in cui tutto è di nuovo chiaro. Allora, nei dintorni di quei momenti, la signora Donatella guarda negli occhi sua madre. E si sorridono.

Quello stesso sorriso si apre sul viso di un’altra donna, Giulia, mentre trotterella sicura nella sua macchinina, dopo aver fatto la spesa nel giorno di mercato, sistemandosi la parrucca, di tanto in tanto e tremando come un violoncello per via della chemio che, ci tiene a spiegarlo alle sue figlie, ti lascia stanca "ma finché c’è vita c’è vita". La signora Giulia non ha scritto un romanzo, non ha inciso un disco, non ha affilato nessuna attitudine particolare, non ha ambizioni se non quella di andare in cerca di asparagi selvatici per una buona zuppa. Le piace sistemare gli asparagi in uno di quei cestini che suo padre si divertiva a intrecciare e di cui si è perso il segreto.
Le piace anche osservare la sua secondogenita ballare un tango a occhi chiusi, con le scarpe nere a punta tonda che lei ha conservato per anni in un mobiletto del bagno. Sono scarpe col cinturino, tengono al sicuro la caviglia quando si gioca con l’equilibrio e una malinconia passeggera. Ma Giulia ha un alibi inattaccabile contro la malinconia, lei non crede nella superficialità degli umori, nella sua granitica resistenza c’è l’antica ingiudicabilità del mito che non ha intenzione di tramandare cosa gli è accaduto ma piuttosto una bellezza senza nome e senza fondo, rimasta inascoltata ai margini delle strade di Lecce. Sono strade che si rallegrano per una giornata di sole, perché il sole a queste latitudini per molte persone rappresenta una delle poche ragioni per restare.

Elena, per esempio, lo ripete sempre che a Bergamo non se la sentiva. Ci ha provato a fare le valigie, ha accettato un ruolo da maestrina, divideva le spese con un’altra ragazza di Tricase, che si portava i pomodori d’inverno alla bocca come fossero pillole per dimenticare. Che cosa, non è dato saperlo, ma pare che avesse troncato una storia durata anni a pochi mesi dal matrimonio. Ma domani è un altro giorno, no? Glielo ha insegnato una madre di ferro, tant’è che quando leggeva sui giornali i trafiletti che rimandavano a una certa “Lady di Ferro”, lei pensava che ce l’avessero con sua madre Rita, che riesce a stare nei turni di lavoro, a fare la mamma e adesso anche la nonna, in equilibrio sulle emergenze di casa come una ballerina sull’orlo di una crisi di nervi.
Certo, quando sente parlare di pari opportunità e altri ottovolanti, mamma Rita diventa un bufalo e parte in picchiata, spegne la televisione e lava i piatti cantando un’Aria d’Opera: “La donna è mobileeeeeee…”.

In un’altra casa, una casa popolare nella vicina Monteroni, il concerto a distanza continua grazie alla musica che Luigina mette in moto intorno a sé da quando, dopo aver tirato su due figli e aver raggiunto i sessant’anni con una forma fisica che farebbe invidia persino a Raffaella Carrà – stesso carré biondo, non a caso – ha deciso di darsi ancora da fare, a sessant’anni, occupandosi della reduce di un ictus, sua madre. Hanno un ben dire, “donne d’altri tempi”, ci sono pure donne di “questi” tempi. Luigina è una di queste. Per tutta la vita, Luigina si è firmata “Anigiul”, che è il suo nome al contrario, a margine delle tele gigantesche che ha riempito di colori a fronte di troppi giorni in bianco e nero. E’ una pittrice che non ha bisogno di un pubblico per sentirsi importante, le sono bastati i carichi di biancheria che il suo primogenito le dava da lavare, le confidenze di sua figlia, una serie di cose più importanti di dieci milioni di spettatori che non riescono a sintonizzarsi sul suo canale, poiché non è in alcun palinsesto, perciò non sanno che cosa si sono persi, quante puntate strabilianti, quante colonne sonore, quante giornate vissute fino all’ultimo respiro tra l’asse da stiro, la lista della spesa, l’attesa di un momento di pace buono per chiudersi nella stanza in fondo al giardino a dipingere ancora, non avendone ancora abbastanza di tramonti.

Queste donne non ci tengono a comparire in nessun indice, non gliele importa niente degli applausi. Vivono, amano e tengono duro, incondizionatamente. Perciò oggi non vogliono sentir riesumare la retorica, non vogliono sentire puzza di mimose. Vogliono respirare un’altra aria. Inesorabile odore di quotidianità.